L’inattività forzata del lavoratore è fonte dell’obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale in capo al datore di lavoro. E’ quanto ha stabilito la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza 18 maggio 2012, n. 7963, con la quale si precisa che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, tenendo conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che tenga conto delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno.
L’art. 2103 c.c., riconosce al lavoratore il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte, con il conseguente diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: il lavoro, infatti, non solo è un mezzo di guadagno, ma è anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino.
La violazione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione, secondo gli ermellini, è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; “responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore, ipotesi che può verificarsi se il datore di lavoro dimostri che il demansionamento e la privazione delle funzioni patiti nella specie dal dipendente siano dipesi da fattori oggettivi estranei alla volontà datoriale e legati alla generale contrazione delle attività imprenditoriali“.
La condotta del datore di lavoro, che lascia in condizione di inattività il dipendente, a ben vedere, non solo si pone in contrasto con l’art. 2103 c.c., ma è anche lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza e, quindi, una lesione del bene immateriale della dignità professionale del lavoratore.
Nella disciplina del rapporto di lavoro, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice il quale, senza duplicare il risarcimento, dovrà evitare di prendere in esame disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili, dai danni che vanno risarciti, mediante una motivazione congrua, coerente sul piano logico, e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia.