Cotituisce principio pacifico della giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ., 26.9.2011 n. 196116; Cass. Civ., 19.2.2008 n. 4068) il dato per il quale l’onere della prova relativo alla impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell’ambito della organizzazione aziendale – concernendo un fatto negativo – deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlati fatti positivi come, ad esempio, il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero,al tempo del recesso, stabilmente occupati o il fatto che, dopo il licenziamento, non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica. Detto onere, come ha precisato la Corte, grava per intero sul datore di lavoro e deve essere comunque mantenuto entro i limiti di ragionevolezza, sicchè esso può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, con l’ulteriore precisazione che il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, ha comunque l’onere di deduzione ed allegazione di tale possibilità di “repechage”.
In merito, è opportuno precisare che la soppressione del posto di lavoro, per integrare valido motivo di licenziamento, non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto ma deve essere diretta a fronteggiare una situazione sfavorevole non contingente. Il lavoratore ha quindi diritto che il datore di lavoro, su cui incombe, come sopra detto, il relativo onere, dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale.