Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, che significa una “folla grande e disordinata”, soprattutto “dedita al vandalismo e alle sommosse”. Il termine venne usato per la primo volta negli anni settanta dall’etologo Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano in gruppo un proprio simile e lo assalgono rumorosamente per allontanarlo dal branco.
La pratica del mobbing sul posto di lavoro, consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica, con il fine di indurre la vittima ad abbandonare il posto di lavoro, anziché ricorrere al licenziamento. Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o, l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet).
Il Mobbing si evolve da un’interazione dinamica tra due parti almeno (Salin, 2003): il mobber e il mobbizzato. Il ruolo del primo può essere interpretato da un’unica persona, da due o più persone coalizzate o da un’intera organizzazione (Ege, 1997) declinando il concetto a ciò che può essere anche chiamato mobbing aziendale o mobbing strutturale (Neuberger, 1999 in Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003), cioè quella gamma di comportamenti che l’azienda attua per far espellere il dipendente dall’organizzazione.
Il mobbing viene principalmente affrontato seguendo due approcci: la più comune teoria dello stress, che lo vede come forma pesante di stressare sociale al lavoro, oppure la teoria del conflitto, che vede il mobbing come un conflitto sociale irrisolto che ha raggiunto livelli alti con un aumento di disequilibrio di potere tra le parti (Zapf e Gross, 2001).
Si possono individuare alcuni elementi che vengono sottolineati nelle varie definizioni date del Mobbing:
– il destinatario delle vessazioni;
– la tipologia dei comportamenti coinvolti;
– la frequenza e la durata di questi comportamenti;
– il disequilibrio di potere tra le parti;
– l’intenzionalità del mobber.
Secondo Niedl (1995), il punto centrale del mobbing rimane sulla percezione soggettiva della vittima che giudica quegli atti ripetuti come ostili, umilianti e intimidatori e diretti alla propria persona. La frequenza degli atti possono essere considerati mediamente offensivi da un individuo o possono essere percepiti come abbastanza gravi da altri tanto da far sorgere accuse ufficiali. Questo riflette la discussione sul ruolo della valutazione soggettiva nelle teorie dello stress psicologico.
Generalmente, si può sostenere che possono esistere differenze di genere delle vittime, rintracciando nel genere femminile una percentuale maggiore di individui soggetti al mobbing e nel genere maschile una percentuale maggiore di soggetti perpetratori del mobbing. Questo fenomeno può essere giustificato dal fatto che le donne vengono educate ad essere meno autoassertive e meno aggressive e tendono ad essere più servizievoli degli uomini (Biörkqvist, 1994 in Zapf, Einarsen, Hoel e Vartia, 2003). Nonostante rimanga un sostanziale corpo di evidenze che dimostrano che generalmente le donne riportano più problemi di salute che gli uomini dopo essere state vittime del mobbing (Niedl, 1996 e Hoel e Cooper, 2000 in Rayner, Hoel e Cooper, 2002), esempi provenienti da alcuni nazioni e da alcuni ambiti lavorativi mostrano un quadro più bilanciato sul genere.
Anche gli appartenenti a gruppi minoritari che differiscono dal gruppo principale nelle loro caratteristiche salienti portano un alto rischio di essere socialmente esclusi dal gruppo.
La natura negativa e indesiderata del comportamento coinvolto è essenziale nella comprensione del mobbing (Einarsen, Hoel, Zapf e Cooper, 2003) ed anche se un singolo evento può concernere il mobbing o la molestia, la maggior parte delle definizioni enfatizza la condizione di atti negativi ripetuti.
La maggior differenza tra il conflitto normale e il mobbing non è necessariamente cosa e come è fatto, ma piuttosto lafrequenza e l’estensione di ciò che è fatto (Salin, 2003). Infatti, le azioni che vengono riportate nei racconti delle vittime possono essere considerate come comuni situazioni di conflitto o stress sul lavoro delineando una normale interazione sociale e professionale. Quando questi comportamenti, però, vengono reiterati nel tempo e indirizzati sempre allo stesso destinatario, le considerazioni cambiano.
Nella letteratura internazionale sono individuabili molteplici classificazioni delle azioni negative tipiche del processo di mobbing (Maier, 2003). I comportamenti possono essere distinti, innanzitutto, tra 1) azioni legate al lavoro, che rendono difficile per le vittime portare a termine il loro lavoro o possono riguardare il togliere parte o tutte le responsabilità e 2) azioni che sono principalmente legate agli individui (Einarsen, 1999 in Matthiesen, 2005).