La Corte d’appello di Trieste e la Corte di Cassazione hanno sollevato – in riferimento agli artt. 3, 4, 27, co. 3, 41 e 111 Cost. – questione di legittimità costituzionale dell’art. 216, ult. co., R.D. 16 marzo 1942, n.267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) nella parte in cui prevede che – per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo – si applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni. Secondo i Rimettenti, la determinazione dell’entità della pena accessoria del delitto di bancarotta fraudolenta in misura fissa violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost. “perché non consentirebbe di tener conto del fatto che tali pene accessorie conseguono a condotte di gravità assolutamente diversa – bancarotta distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – tanto da consentire al giudice di determinare la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di reclusione”, in tal modo estendendo la fattispecie astratta a condotte di gravità molto diversa tra loro.
La Corte ribadisce (cfr. ord. 293/2008) l’opportunità che “il Legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma”; e tuttavia dichiara le questioni di legittimità costituzionale inammissibili, in considerazione del petitum formulato dai Rimettenti.
Quest’ultime chiedono alla Corte, infatti, di aggiungere le parole «fino a» all’ultimo comma dell’art. 216, R.D. 267/1942, al fine di rendere possibile l’applicazione dell’art. 37 cod. pen.; e però, tale soluzione è soltanto una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: invero “sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva”. Pertanto l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus “non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore”.
Essendo inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del Legislatore – che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva “a contenuto non costituzionalmente obbligato” – la Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 216, ult. co., R.D. 267/1942 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevate dalla Corte d’appello di Trieste e dalla Corte di Cassazione.
Corte Costituzionale – Sentenza 31 maggio 2012 , n. 134